Diciannovesimo giorno di ospedale: galli victi sunt.
Dal mio polmone malconcio, ormai esce solo liquido sterile, e nessun nuovo batterio è in grado di metterci le radici.
La svolta è arrivata, ora devo solo rimettermi in sesto.
È stata una battaglia lunga e dura, ma alla fine ha vinto il più tenace, cioè io. Tiè.
Ve l’avevo anche detto.
A completo beneficio del suo seguito di dottorini in erba, il Dottore vero (quello con la D maiuscola) ha chiarito una volta per sempre quanto segue: da un’infezione come questa, sono quasi più quelli che se ne vanno a San Cataldo che gli altri.
A beneficio di chi legge, io chiarisco che San Cataldo è il cimitero di Modena.
Ecco, questa cosa continua inevitabilmente a frullarmi nella testa: ho rischiato SUL SERIO di lasciarci le penne!
Ma chi ci può credere davvero?!?
È così folle che se ci penso troppo mi gira la testa.
Continuiamo da dove eravamo rimasti.
La persona che mi ha salvato la vita
è il Dottore con la D maiuscola.
Cioè, prima di lui il mio medico di base (quello che fino a un paio di settimane fa non sapeva nemmeno chi fossi) e, prima ancora, quella santa donna di mia madre (che, al contrario, sa così bene chi sono da avermici portato con la forza).
Ma il Doctor House è il Doctor House.
Come lui, se non peggio di lui, anche il mio zoppica piuttosto vistosamente, solo che ad aiutarlo negli spostamenti non è un bastone, bensì il carrellino che trasporta l’ecografo, usato con disinvoltura come se fosse un inseparabile deambulatore.
(Dice che) è caduto dal motorino.
È ghiotto di cioccolato belga, che ricorda con nostalgia dagli anni in cui ha vissuto a Bruxelles.
Ha fatto il militare durante la guerra in Libano a metà degli anni ’80.
(Dice che) ha fumato tutto quello che gli è passato sotto il naso per un sacco di anni ruggenti della sua vita.
Suona la tromba e canta la lirica (anche in corsia).
Risolve le espressioni con le frazioni di sua figlia al mattino, prima di colazione, per ampliare la mente.
Gli piacciono i narcisi.
Parla in spiccato dialetto reggiano, peggiorato da una erre decisamente parmense (diciamo francofona, valà), pur essendo nato a Rimini e pur non avendo mai avuto a che fare con queste infelici località d’oltre Secchia.
È scurrile come uno scaricatore di porto, ma ha due santissime mani di velluto.
Parla con l’ecografo e con gli organi che sta visitando.
Quando si fa la barba, ti chiede di accarezzargli la guancia e di fargli i complimenti.
È impulsivo e non indugia, non ascolta nessuno se non i suoi pazienti, fa come gli pare anche quando forse non dovrebbe.
Ti dice le cose a muso duro, e subito dopo scoppia a ridere.
Un’urgenza di vita gli passa negli occhi come un lampo, per quell’istante in cui decidono di fermarsi nei tuoi, e subito dopo tu smetti di avere paura.
È il mio eroe e gli sarò infinitamente grata per sempre.
Stavolta non ce l’ho fatta, mi hai fatto piangere. Ma va bene così, ed eterna gratitudine al dottor D.
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Non so, io riesco solo a ridere. Ma mi sa che, vista da fuori, la faccenda sia diversa…
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No no, meglio ridere! Mi ha commosso il dottor D, tutto qui 😉
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